Lo sapevi che
Lo scopo di questa pagina è quello di offrire un canale di divulgazione su diverse tematiche legate alle disabilità e alle persone con fragilità…
Diamo il nostro contributo culturale su normative per il lavoro, origine e significati dei termini…
Perché “saperlo” apre strade nuove: di pensiero e di possibilità!
Carta dei Dritti delle persone con disabilità
È un documento approvato dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006 a New York, la Convenzione rappresenta il testo di riferimento per tutte le normative e le politiche successive, volte a migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità, tanto da essere stata definita “il primo grande trattato sui diritti umani del XXI Secolo”.
Non promuove nuovi diritti ma, con i suoi 50 articoli, afferma con forza la necessità che tutti i diritti umani e le libertà fondamentali siano pienamente goduti anche dalle persone con disabilità, alle quali va sempre garantito il rispetto della dignità.
Il fine ultimo è la rimozione di tutti gli ostacoli, sia ambientali che culturali, alla piena uguaglianza.
Uso della Terminologia
Le persone devono essere chiamate col proprio nome.
Se proprio c’è bisogno di indicare una disabilità si può dire: “una persona con disabilità”, “persona con disabilità intellettiva”, “persona con sindrome di Down” o “una persona cieca/sorda”.
La disabilità è una caratteristica della persona, non è la persona in sé.
Origine del termine Handicap
Ti sai mai chiesto da cosa deriva il termine HANDICAP?
Hand in Cap (letteralmente tradotto “mano nel cappello”)nel linguaggio sportivo internazionale indica uno svantaggio che viene attribuito al giocatore più forte, per farlo concorrere alla pari con gli altri giocatori.
Da qui l’origine della parola Handicap.
La prima Cooperativa Sociale dell’Italia e del Mondo nasce nel 1972 a Trieste
E’ il 3 maggio 1972 e nell’Ospedale Psichiatrico di Trieste, c’è una strana riunione. Davanti al dottor Vladimiro Claric, notaio, sono sedute 28 persone.
Due sono sociologi, due psicologi, cinque infermieri, uno fa l’assistente sanitaria, due il medico. Nell’atto che sta preparando il notaio descrive gli altri sedici come “privato”. Hanno tutti lo stesso indirizzo di residenza: via San Cilino 16, Trieste. E’ quello del manicomio: vuol dire che sono pazienti, ricoverati, “internati”. Alcuni sono giovani, altri più avanti con gli anni.
Francesco è nato nel 1914, Antonio nel 1911. Molti vengono dall’Istria, che dopo la guerra è diventata Jugoslavia e tanti sono scappati andando incontro alla tragedia dell’esodo e alle difficoltà di rifarsi una vita. Ferdinando è nato a Buenos Aires e non sappiamo quali incasinamenti l’abbiamo portato a Trieste e poi nel manicomio. Mario è del 1897, sta per compiere 75 anni e presumiamo che molti li abbia passati in quel luogo chiuso, l’ospedale psichiatrico. Nessuna descrizione della foto disponibile.
Sono tutti lì, scrive il notaio, “per costituire una società cooperativa a responsabilità limitata denominata Cooperativa Lavoratori Uniti, con sede il Trieste, via San Cilino 16.” La cooperativa “senza finalità speculative, si propone di garantire a tutti i soci che svolgono mansioni lavorative all’interno e no dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale, il riconoscimento dei propri diritti di prestatori d’opera e di contribuire a creare le condizioni per un effettivo inserimento nella società e per una effettiva riabilitazione (psicosociale)”.
Non sappiamo perché il dottor Claric, notaio, abbia messo tra parentesi quel psicosociale. Forse è una involontaria citazione: qualcuno, da qualche anno, sta dicendo e dimostrando che si può mettere tra parentesi la malattia mentale. Non per negarla, ci mancherebbe, ma per guardare alle persone invece che alle diagnosi che si portano dietro. Ai problemi che hanno e alle capacità che si portano dentro insieme ai problemi.
Quella di lavorare, per esempio. Il manicomio è tenuto in piedi anche dal lavoro degli internati. Che spalano il carbone nelle caldaie, lavano la biancheria, la distribuiscono nei reparti, cuciono le misere divise che tutti devono portare. Fanno cose. Ricevono in cambio un buono, un pezzo di metallo – il manicomio batte una sua moneta – da spendere nello spaccio interno.
La chiamano “ergoterapia”, cura attraverso il lavoro: forse un buon intento di base, nell’attuazione un lavoro senza paga. E allora, si è detto nelle tante assemblea che hanno preparato la nascita di questa cooperativa, se è lavoro va pagato come tale. Si chiamano diritti. Qualche tempo dopo qualcuno si accorge che l’atto del notaio Claric non è valido. Perché i sedici “privati” non hanno diritti civili e politici: sono internati in ospedale psichiatrico e quindi non cittadini. Non possono votare, contrarre matrimonio, fare testamento. Figurarsi fondare una cooperativa. Lo dice la legge che regola il manicomio, datata 1904.
Così il Tribunale di Trieste rigetta l’istanza di omologazione della cooperativa: i degenti sono “incapaci di intendere e di volere”, non possono essere riconosciuti come cooperativisti. Il notaio Clarich fa subito ricorso, ma il 25 ottobre 1972 la corte d’Appello lo respinge. E ci sono problemi anche con la “Camera di commercio, industria e artigianato” per l’iscrizione della Cooperativa al Registro delle ditte. Perché se non c’è il nulla osta del Tribunale non c’è la pubblicazione dell’Atto costitutivo nel Foglio Annunzi Legali della Prefettura di Trieste. E’ una “lunga marcia” attraverso le Istituzioni.
Con Basaglia ed i suoi c’è Michele Zanetti, uomo straordinario. E’ giovanissimo, è democristiano, è il Presidente della Provincia ed è lui che ha voluto Basaglia come direttore dell’Ospedale Psichiatrico. Gli ha dato “carta bianca” e poi ha fatto di più. Senza Michele Zanetti, Franco Basaglia sarebbe stato un teorico, un saggista. Insieme – e con tanti altri – hanno costruito una società senza manicomi. Mai, prima, nessuno l’aveva neanche pensata.
Adesso è questo che stanno facendo. Davanti al notaio dott. Vladimiro Clarich si redige un nuovo atto costitutivo con relativo Statuto, con soci fondatori operatori e internati che sono diventati ora “ricoverati volontari”, secondo quanto previsto da una legge del 1968 che sta cominciando a mutare la fissità dell’Ospedale psichiatrico. Il ricoverato volontario ha capacità giuridica, quindi può unirsi ad altri e fondare una cooperativa. Già che ci siamo si specificano i settori di attività della Cooperativa: pulitura, manovalanza e giardinaggio.
E’ il 16 dicembre 1972, 50 anni fa. E’ nata la prima cooperativa sociale del mondo. Da allora, in migliaia di luoghi in Italia, migliaia di cooperative sociali fanno impresa, tutti i giorni, per tenere insieme lavoro, dignità, relazioni tra le persone. Per essere, con il lavoro e quello che il lavoro trascina con sé – appartenenza, soddisfazione, litigi con i capi e i colleghi, stipendi, ferie, cene di Natale, tirocini e cartellini da timbrare – dei cittadini decenti.
Anche quando la vita si è un po’ incasinata e alzarsi la mattina per andare a lavorare sembra ancora un po’ più faticoso del solito. Ma poi si va. Un mondo, la cooperazione sociale, animato da migliaia di persone. Vitale e troppo poco raccontato. Fa eccezione il bel film del 2008, “Si può fare”, di Giulio Manfredonia con Claudio Bisio, ispirato alla cooperativa Noncello di Pordenone. Tornando a Trieste, dove tutto è cominciato, tocca dire che uno dei due medici presenti all’atto costitutivo di cinquant’anni addietro, era Franco Basaglia, quello del fra parentesi. La Cooperativa Lavoratori Uniti c’è ancora. Ha cambiato nome e adesso è la “Cooperativa Sociale Lavoratori Uniti Franco Basaglia”. E a lei, e a tutti i cooperatori sociali, molti auguri”.
Massimo Cirri
Fonte : FriuliSera Leggi qui
Sulla pagina Facebook “racconta la nascita della prima cooperativa sociale dell’Italia e del mondo” … Vai alla pagina
La prima Cooperativa Sociale dell’Italia e del Mondo nasce nel 1972 a Trieste
E’ il 3 maggio 1972 e nell’Ospedale Psichiatrico di Trieste, c’è una strana riunione. Davanti al dottor Vladimiro Claric, notaio, sono sedute 28 persone.
Due sono sociologi, due psicologi, cinque infermieri, uno fa l’assistente sanitaria, due il medico. Nell’atto che sta preparando il notaio descrive gli altri sedici come “privato”. Hanno tutti lo stesso indirizzo di residenza: via San Cilino 16, Trieste. E’ quello del manicomio: vuol dire che sono pazienti, ricoverati, “internati”. Alcuni sono giovani, altri più avanti con gli anni.
Francesco è nato nel 1914, Antonio nel 1911. Molti vengono dall’Istria, che dopo la guerra è diventata Jugoslavia e tanti sono scappati andando incontro alla tragedia dell’esodo e alle difficoltà di rifarsi una vita. Ferdinando è nato a Buenos Aires e non sappiamo quali incasinamenti l’abbiamo portato a Trieste e poi nel manicomio. Mario è del 1897, sta per compiere 75 anni e presumiamo che molti li abbia passati in quel luogo chiuso, l’ospedale psichiatrico. Nessuna descrizione della foto disponibile.
Sono tutti lì, scrive il notaio, “per costituire una società cooperativa a responsabilità limitata denominata Cooperativa Lavoratori Uniti, con sede il Trieste, via San Cilino 16.” La cooperativa “senza finalità speculative, si propone di garantire a tutti i soci che svolgono mansioni lavorative all’interno e no dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale, il riconoscimento dei propri diritti di prestatori d’opera e di contribuire a creare le condizioni per un effettivo inserimento nella società e per una effettiva riabilitazione (psicosociale)”.
Non sappiamo perché il dottor Claric, notaio, abbia messo tra parentesi quel psicosociale. Forse è una involontaria citazione: qualcuno, da qualche anno, sta dicendo e dimostrando che si può mettere tra parentesi la malattia mentale. Non per negarla, ci mancherebbe, ma per guardare alle persone invece che alle diagnosi che si portano dietro. Ai problemi che hanno e alle capacità che si portano dentro insieme ai problemi.
Quella di lavorare, per esempio. Il manicomio è tenuto in piedi anche dal lavoro degli internati. Che spalano il carbone nelle caldaie, lavano la biancheria, la distribuiscono nei reparti, cuciono le misere divise che tutti devono portare. Fanno cose. Ricevono in cambio un buono, un pezzo di metallo – il manicomio batte una sua moneta – da spendere nello spaccio interno.
La chiamano “ergoterapia”, cura attraverso il lavoro: forse un buon intento di base, nell’attuazione un lavoro senza paga. E allora, si è detto nelle tante assemblea che hanno preparato la nascita di questa cooperativa, se è lavoro va pagato come tale. Si chiamano diritti. Qualche tempo dopo qualcuno si accorge che l’atto del notaio Claric non è valido. Perché i sedici “privati” non hanno diritti civili e politici: sono internati in ospedale psichiatrico e quindi non cittadini. Non possono votare, contrarre matrimonio, fare testamento. Figurarsi fondare una cooperativa. Lo dice la legge che regola il manicomio, datata 1904.
Così il Tribunale di Trieste rigetta l’istanza di omologazione della cooperativa: i degenti sono “incapaci di intendere e di volere”, non possono essere riconosciuti come cooperativisti. Il notaio Clarich fa subito ricorso, ma il 25 ottobre 1972 la corte d’Appello lo respinge. E ci sono problemi anche con la “Camera di commercio, industria e artigianato” per l’iscrizione della Cooperativa al Registro delle ditte. Perché se non c’è il nulla osta del Tribunale non c’è la pubblicazione dell’Atto costitutivo nel Foglio Annunzi Legali della Prefettura di Trieste. E’ una “lunga marcia” attraverso le Istituzioni.
Con Basaglia ed i suoi c’è Michele Zanetti, uomo straordinario. E’ giovanissimo, è democristiano, è il Presidente della Provincia ed è lui che ha voluto Basaglia come direttore dell’Ospedale Psichiatrico. Gli ha dato “carta bianca” e poi ha fatto di più. Senza Michele Zanetti, Franco Basaglia sarebbe stato un teorico, un saggista. Insieme – e con tanti altri – hanno costruito una società senza manicomi. Mai, prima, nessuno l’aveva neanche pensata.
Adesso è questo che stanno facendo. Davanti al notaio dott. Vladimiro Clarich si redige un nuovo atto costitutivo con relativo Statuto, con soci fondatori operatori e internati che sono diventati ora “ricoverati volontari”, secondo quanto previsto da una legge del 1968 che sta cominciando a mutare la fissità dell’Ospedale psichiatrico. Il ricoverato volontario ha capacità giuridica, quindi può unirsi ad altri e fondare una cooperativa. Già che ci siamo si specificano i settori di attività della Cooperativa: pulitura, manovalanza e giardinaggio.
E’ il 16 dicembre 1972, 50 anni fa. E’ nata la prima cooperativa sociale del mondo. Da allora, in migliaia di luoghi in Italia, migliaia di cooperative sociali fanno impresa, tutti i giorni, per tenere insieme lavoro, dignità, relazioni tra le persone. Per essere, con il lavoro e quello che il lavoro trascina con sé – appartenenza, soddisfazione, litigi con i capi e i colleghi, stipendi, ferie, cene di Natale, tirocini e cartellini da timbrare – dei cittadini decenti.
Anche quando la vita si è un po’ incasinata e alzarsi la mattina per andare a lavorare sembra ancora un po’ più faticoso del solito. Ma poi si va. Un mondo, la cooperazione sociale, animato da migliaia di persone. Vitale e troppo poco raccontato. Fa eccezione il bel film del 2008, “Si può fare”, di Giulio Manfredonia con Claudio Bisio, ispirato alla cooperativa Noncello di Pordenone. Tornando a Trieste, dove tutto è cominciato, tocca dire che uno dei due medici presenti all’atto costitutivo di cinquant’anni addietro, era Franco Basaglia, quello del fra parentesi. La Cooperativa Lavoratori Uniti c’è ancora. Ha cambiato nome e adesso è la “Cooperativa Sociale Lavoratori Uniti Franco Basaglia”. E a lei, e a tutti i cooperatori sociali, molti auguri”.
Massimo Cirri
Fonte : FriuliSera
https://friulisera.it/a-trieste-nel-1972-la-nascita-della-prima-cooperativa-sociale-dellitalia-e-del-mondo-il-post-di-massimo-cirri/
sulla pagina Facebook “racconta la nascita della prima cooperativa sociale dell’Italia e del mondo” … https://www.facebook.com/massimo.cirri/
Convenzione Art. 14
La convenzione ex Art. 14 del D. Lgs. 276/03 è uno degli strumenti di politica attiva del lavoro che consente alle aziende di assolvere ad una parte degli obblighi previsti dalla L. 68/99, attraverso il conferimento di commesse di lavoro a cooperative sociali, che assumono direttamente le persone con disabilità che presentano particolari difficoltà di integrazione nel mondo del lavoro.
Nel caso di datori di lavoro con più di 50 dipendenti, il numero di inserimenti previsti in convenzione può coprire al massimo il 50 % della quota di riserva (DGR n. 643 del 6 maggio 2022).
Requisiti richiesti:
- Essere datori di lavoro privati associati o aderenti alle associazioni di categoria firmatarie della Convenzione quadro, con sede o unità locale nell’ambito territoriale della provincia in cui si intende stipulare la convenzione. Avere adempiuto agli obblighi di assunzione di lavoratori con disabilità ai fini della copertura della quota restante, anche attraverso altri accordi convenzionali ai sensi della legge 68/1999.
- Essere cooperative sociali di tipo B iscritte all’albo regionale oppure operanti sul territorio regionale anche se solo con una unità locale, iscritte a una delle associazioni di rappresentanza firmatarie della Convenzione Quadro ed attive da almeno due anni;
- Essere imprese sociali di cui decreto legislativo n. 112/2017, essere iscritte nel registro delle imprese alla sezione “imprese sociali”, iscritte ad una delle associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela che sottoscrivono la convenzione quadro ed essere attive da almeno due anni precedenti alla richiesta di stipula della convenzione.
Come presentare la domanda
Per le informazioni e le modalità di richiesta di stipula della convenzione, rivolgersi alla struttura del collocamento mirato competente per territorio.
Dal sito regione FVG
https://www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/formazione-lavoro/servizi-datori-lavoro/FOGLIA10/
Oppure contattaci, ti daremo tutte le informazioni.
Il progetto STIVI di Asufc
STIVI (Servizio per la Transizione, l’Inclusione e la Vita Indipendente)
Si tratta di un progetto nato nel 2021 che offre e a giovani adulti con disabilità intellettiva e autismo, un servizio innovativo per lo sviluppo delle competenze tipiche della vita quotidiana di ogni cittadino: vivere e gestire una casa, muoversi sul territorio, imparare a relazionarsi e ad integrarsi pienamente nella comunità locale attraverso attività utili al contesto sociale di riferimento.
La prima sperimentazione ha preso vita nel Centro di Feletto Umberto e ha messo a disposizione di 5 ragazzi dai 15 ai 25 anni con disabilità intellettiva e autismo, un appartamento per sperimentare un’esperienza di condivisione di spazi e tempi all’interno di quella che può essere definita la “Casa delle autonomie”.
Il progetto S.T.I.L.I. di Arte e Libro
S.T.I.L.I. (Servizio per la Transizione ed un Lavoro Indipendente)
In Arte e Libro, ci occupiamo anche e soprattutto di inserimento lavorativo ed inclusione sociale, per questo sta prendendo forma Il progetto S.T.I.L.I. che si inserisce perfettamente nel progetto S.T.I.V.I. di Asufc.
S.T.I.L.I. si pone e si propone come strumento indispensabile nella costruzione di un progetto di vita per persone con disabilità: perché lavoro e indipendenza sono strettamente collegati.
Vi parleremo presto e più diffusamente di questo progetto!